Ferro e Ruggine

COSIMO CALAMINI, Ferro e ruggine (Morellini 2024)

Del romanzo di Cosimo Calamini ho apprezzato la narrazione di questa saga familiare efficacemente ambientata in Val d’Orcia, terra che peraltro adoro. Ciò che invece non ho apprezzato affatto è il modo disinvolto ed approssimativo con cui l’autore ha “usato” la vicenda della chiesetta di Lamb Holm attingendo a piene mani dal libro di Philip Paris Orkney’s Italian Chapel. The True Story of an Icon (ed. Black&Withe, 2010, 2013)

La la storia della cappella italiana nelle Orcadi è da tempo largamente nota, oggetto di svariate pubblicazioni, racconti, reportage, opere musicali e documentari prodotti sia in Italia sia all’estero (UK), tra cui quello di RAI Storia e quello più recente realizzato da Piero Badaloni. Non sono mancate nemmeno trasposizioni letterarie, più o meno romanzate, ovvero opere di narrazione che includono al loro interno riferimenti o sequenze relative alla chiesetta italiana, come ad esempio il bel romanzo storico di Nico Priano, Prima che il buio (ed. NUA, 2021; vedi sotto).

Ebbene, sotto questo profilo il lavoro di Calamini è assai deludente, specie agli occhi di coloro che hanno imparato ad amare la storia della chiesetta italiana, magari dopo aver conosciuto – direttamente o indirettamente – i luoghi, le circostanze e il profilo psicologico e umano dei protagonisti e quello delle popolazioni coinvolte nella vicenda. Sorprende in primo luogo la mancanza di un serio lavoro di documentazione, che dovrebbe rendere manzonianamente “verosimile” un romanzo storico, cosicché l’autore incappa in esilaranti ingenuità: un the al limone del tutto improponibile nelle Orcadi, le “alte scogliere” inesistenti nell’isola di Lamb Holm, un assurdo tentativo di fuga su zattera in puro stile “Papillon”, e così via.

Ma non basta: le vicende del Campo 60 sono riportate in modo assai pedissequo: i nomi dei protagonisti sono talvolta cambiati o stravolti, talvolta conservati come accade per il colonnello Buckland, comandante del campo, ritratto per converso in maniera fastidiosamente caricaturale. Ovviamente l’ideazione della cappella è attribuita al protagonista del romanzo, improbabile artista che fa ritratti con la punta della forchetta e dipinge gli angeli con le facce dei commilitoni. Anche la parte post-bellica è riportata paro paro: ricerca e telefonata della BBC, ritorno del pittore nella chiesetta per lavori di restauro e via ricopiando. In sintesi un “copia e incolla” che svilisce l’opera dell’autore e inficia il significato di “romanzo”. 

In altre parole, la “storia vera” della cappella italiana viene infilata in un trama romanzesca in modo del tutto strumentale, artificioso, senza un vero nesso organico con il resto della narrazione, anzi in stridente contrasto con essa, il che finisce per oscurare alquanto il valore dell’opera dei prigionieri italiani nelle Orcadi, che suscita ancor oggi stupore e commozione tra i numerosi visitatori per il messaggio di pace e fratellanza tra i popoli che continua a trasmettere, in un mondo nel quale invece torna a soffiare il vento dell’odio, della guerra e della violenza. 

Da qui il disappunto mio personale, nonché quello dei miei famigliari e di molti amici, per un libro che in nome della legittima libertà dello scrittore finisce per ingenerare e diffondere confusione tra realtà e finzione, a discapito di una vicenda umana ancora così vicina e viva nella memoria collettiva. Questo vale in particolare per la comunità ladina di Fassa, in seno alla quale Domenico Chiocchetti detto “Goti”, pittore-artigiano formatosi presso le botteghe d’arte sacra della Val Gardena, ha lasciato un ricordo duraturo, dopo una vita dedicata alla ricerca del bello, al lavoro, alla famiglia e al bene comune, con un messaggio di speranza e positività espresso nel motto che egli stesso ha voluto dipingere sulla sua casa: «Empea n lumin e no maledir el scur», accendi un lume e non maledire l’oscurità (Fabio Chiocchetti).


Commenti:

  • Chi ha avuto modo di vedere il video di Piero Badaloni, avrà potuto ascoltare la viva voce del Comandante del Campo 60, allora Maggiore Thomas Buckland, congedato col grado di Colonnello, intervistato nel 1960 per il programma radio della BBC. Nobile figura di grande umanità, che si prodigò non solo per la costruzione della Cappella, ma anche per alleviare in ogni modo la vita dei prigionieri italiani.

    Intervista 1960: «Il tempo che ho trascorso come comandante al campo degli italiani per me è uno dei ricordi più belli della mia vita. Vorrei, se mi permette, mandare un saluto a tutti, specialmente a padre Giacobazzi, al capitano medico Zerbino, al sergente maggiore Fornasier, Chiocchetti, Palumbi, Buttapasta, a tutti gli altri. Ciao, ciao a tutti!» (dichiarazione raccolta dalla BBC nel 1960; sotto, con gli ex-prigionieri Altinier, Serg. Magg. Fornasier e Chiocchetti).

    Calamini (2024): «[Buckland] era un omone di almeno un metro e novanta per cento chilo, con le guance che parevano due culi di mortadella e degli occhiali spessi come una barra di ghisa, gli occhi erano piccoli e un po’ sghembi a causa di un leggero strabismo di venere…» (p. 204) Che bisogno c’era di farne la caricatura? Piuttosto, inventati un altro personaggio! (fch)


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Prima che il buio